Il 31 luglio la storica
società di porcellane “Richard Ginori” ha chiuso. Una gravissima
perdita non solo per il tessuto occupazionale e produttivo della
provincia di Firenze ma anche per la storia della nostra città.
La società, fondata
quasi tre secoli fa, infatti è un marchio storico legato al
territorio ed è un simbolo dell’eccellenza produttiva toscana nel
campo delle porcellane. Eppure tutto ciò non è bastato ad evitare
che venisse spazzata via da una crisi tanto veloce quanto
inspiegabile.
Veloce perché in pochi
mesi si è passati da rosee prospettive di crescita alla messa in
liquidazione dell’impresa, inspiegabile perché, nonostante la
crisi mondiale, appena un anno fa l’azienda produceva a pieno ritmo
grazie anche ad un accordo con una nota ed importante catena di super
ed ipermercati che aveva indetto un concorso a punti mettendo in
premio i prodotti della Richard Ginori. Addirittura nel marzo 2011
quindi appena diciassette mesi fa, era stato inaugurato il terzo
forno chiuso da anni a dimostrazione di una situazione di ordini
florida e piena di aspettative positive.
E invece, in meno di un
anno, tutte le speranze, tutte le migliori previsioni sono state
disattese. E’ stata scaricata la colpa sulle banche e sulla stretta
creditizia, è stata data la colpa alla concorrenza estera che può
utilizzare manodopera a bassissimo costo, ma a fronte di tanti
discorsi e tante scuse l’unica certezza è che ci sono 70 milioni
di debiti che hanno soffocato l’impresa e che l’hanno portata
sull’orlo del fallimento.
Sarebbe auspicabile che
gli organi preposti al controllo, a iniziare dal tribunale,
acclarassero le eventuali responsabilità di amministratori e soci in
questa rovinosa debacle imprenditoriale. Non vorremmo che la Richard
Ginori fosse stata vittima di uno dei tanti rappresentanti di quella
categoria di avventurieri che ormai affolla il mondo imprenditoriale
italiano e che molptepilici danni ha prodotto al tessuto produttivo
nazionale.
Ma in questa situazione
disperata c’è da pensare anche, e soprattutto, a salvare il posto
di lavoro dei 330 dipendenti, la loro altissima professionalità e il
marchio secolare. Le soluzioni prospettate finora non sono
confortanti: si va dalla peggiore, che è la chiusura definitiva,
alla meno peggio che è quella di una società straniera che rilevi
il marchio e che, nel giro di qualche anno, delocalizzerà
interamente la produzione in paesi a basso costo di manodopera.
Ci sarebbe una terza
soluzione, ardita ma praticabile e auspicabile, quella della gestione diretta dei
dipendenti. Esistono già precedenti confortanti in Italia, come ad
esempio le Fonderie Zen di Padova. Con l’aiuto delle istituzioni
pubbliche locali, dei fornitori e del restante mondo imprenditoriale
toscano la soluzione sarebbe percorribile, sebbene irta di ostacoli e
incognite. Abbiamo escluso a priori le banche perché ormai è
evidente che dopo aver provocato questa crisi globale ormai pensano
soltanto a salvare se stesse con una politica del credito che non
abbiamo problemi a definire criminale.
La scelta di affidare la
gestione direttamente ai lavoratori, costituiti in società lucrativa
o in cooperativa, è soltanto questione di coraggio e lungimiranza,
doti tanto apprezzabili quanto scarse al giorno d’oggi. Qualcuno in
questa vicenda dimostrerà di possederle?
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